Settimana della Flessibilità al Gioia, diritto alla salute delle donne afghane

In un periodo di tagli alla scuola ci sono istituti e licei che alzano il tiro e si dimostrano eccellenze formative in grado di proporre esperienze particolari in grando di aprire gli occhi sul mondo. E al contempo si offre al mondo la possibilità di capire l’atteggiamento, l’approccio e le dinamiche del mondo studentesco e dei docenti che li “guidano”. Il Liceo Melchiorre Gioia di Piacenza è tra queste eccellenze e in questi giorni sta vivendo una settimana decisamente particolare: la settimana della Flessibilità, è stata chiamata, e consiste in una serie di incontri sui temi più disparati che toccano la letteratura, le scienze, la cultura, lo sport, l’attualità e l’associazionismo attivo. Si tengono anche corsi di recupero per chi deve recuperare le insufficienze, spiega la professoressa Marisa Acogliati che ha organizzato la “settimana”, ma anche – come si accennava – una serie di seminari-conferenze «in grado di mettere in contatto i 1.780 allievi del Liceo Gioia con il mondo esterno e al contempo in grado di mettere il mondo esterno in contatto con la cultura che si fa qui, al Gioia».

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Questa mattina si parlava di diritti delle donne e in particolare si parlava della madre di tutti i diritti: quello alla salute. E lo si è fatto con un medico che nella sua carriera ha vissuto e sta vivendo esperienze non certo usuali: Paolo Grosso di Emergency. Agli studenti, interessatissimi, ha parlato dell’esperienza dell’organizzazione fondata da Gino Strada e in particolare di come le donne dell’Afghanistan, e più in generale quella comunità, donne e uomini compresi, vivono la presenza del primo reparto di ostetricia e ginecologia mai aperto in quel paese, tutt’oggi massacrato dal conflitto. In questa parte di mondo si tende a pensare, spesso non a torto, che il più grave dei problemi per le donne afghane siano gli uomini ma se si parla con chi vive quel tipo di società dal di dentro si capisce che la questione è più complicata, ha dinamiche diverse, più profonde, che si radicano in usi e costumi secolari. «Per far valere un diritto bisogna sapere di averlo, questo diritto» esordisce Grosso, chiarendo subito i termini della situazione. «La nostra missione fin da subito, fin dal 2003 – ha proseguito – è stata far capire alle donne di quella comunità, nella valle del Pashir, che avevano la possibilità di curarsi. E il fatto che non lo facessero e in certi casi non lo facciano ancora non è tanto legato all’Islam, come molti credono, ma è frutto di una cultura millenaria che, complice anche l’isolamento di quelle popolazioni, faceva fatica a rinnovarsi». Oggi anche in Afghanistan, pur con tutte le difficoltà e gli ostacoli del caso, sta nascendo una consapevolezza maggiore e anche le comunità locali, a partire dalle donne (molte delle quali sono state formate come infermiere e ostetriche) ma anche da una buona fetta della comunità maschile, si stanno emancipando. E ciò anche grazie alle autorità locali, sensibilizzate da oltre dieci anni di lavoro da parte di questi medici che tutt’ora prestano cure gratuite a chi ne ha bisogno.