Commemorati i caduti per la Patria, ma i fioristi sbottano: “Troppi abusivi”

 “Ai nostri caduti, che sono stati quasi tutti ventenni, hanno combattuto per la patria, lasciando un grande vuoto nel cuore delle loro famiglie”.  Si è celebrata, come ogni 2 novembre al cimitero cittadino, la commemorazione dei defunti, alla presenza delle più alte autorità civili e militari locali. L’omelia è stata affidata a don Bruno Crotti, cappellano militare che ha ricordato come “i nostri caduti, che sono stati quasi tutti ventenni, hanno combattuto per la patria, lasciando un grande vuoto nel cuore delle loro famiglie”. Ma anche quest’anno, nonostante la ricorrenza, non sono mancate le proteste dei venditori di fiori che hanno la loro attività nei pressi del cimitero. Le loro invettive erano rivolte in particolare ai tanti abusivi che anche in mattinata sostavano in zona offrendo a prezzi stracciati mazzi di fiori da portare ai propri cari. Alla vista delle autorità ma soprattutto dei rappresentanti delle forze dell’ordine, gli abusivi sono scappati. Sono rimasti, invece, coloro che chiedevano la carità, che hanno assicurato: “Nonostante la crisi i piacentini sono generosi”.  

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Commemorazione dei Caduti per la Patria, il discorso del sindaco Paolo Dosi

In questo luogo che assume, per ciascuno di noi, il profilo di un’intima e personale adesione alle ricorrenze che si celebrano in questi giorni, la Memoria ritrova una dimensione collettiva che ci unisce, come cittadini, attraverso il filo conduttore di un passato che racchiude le nostre più profonde radici. 
La cerimonia odierna, al cospetto della lapide che riporta i nomi di 17 partigiani fucilati dalle milizie nazifasciste, rappresenta allora l’occasione per esprimere, alle famiglie di tutti i Caduti per la Patria, la nostra partecipazione a un dolore mai sopito, mai dimenticato. Essere qui, oggi, vuol dire rendere onore a coloro che hanno dato sé stessi nel nome di ideali che trascendevano ogni egoismo, ogni individualità: la libertà, la democrazia, la pace come chiave di un futuro migliore per le generazioni a venire. Ma significa anche ricordare chi, vittima di un’ideologia violenta e bellicista, di quel nazionalismo esasperato e deviante che accese il dramma della Grande Guerra, trovò la morte nel freddo e nel buio di una trincea, imbracciando un fucile che forse non sapeva usare, indossando un’uniforme che non aveva scelto, soffrendo la morsa del gelo e della fame.
Lo racconta vividamente Mario Rigoni Stern, dando voce al ventre di quel treno che portava al fronte uomini giovani “addormentati – scrive – nella paglia uno a fianco dell’altro, sognando montagne e ragazze. Ma uno, quella notte, non dormì. In un angolo del vagone pensava per la prima volta in vita sua al destino della povera gente, alla guerra che pretende che la povera gente s’ammazzi a vicenda e si chiedeva: chi ritornerà di quanti siamo su questo treno? Quanti compaesani uccideremo? E perché? Giacché al mondo – conclude – siamo tutti paesani”. 
E’ anche questo, il senso profondo della nostra presenza raccolta e consapevole: far sì che il ricordo non sia fine a se stesso, non si esaurisca nella ritualità formale di una circostanza solenne, ma lasci dentro di noi il germoglio di un impegno sincero, determinato, cosciente, affinchè ciascuno possa tributare nella propria quotidianità l’omaggio a chi ha compiuto, per noi, il sacrificio più grande. Lo testimoniano i volti, le date impresse sulle lastre di marmo tra le quali abbiamo camminato stamani, deponendo corone d’alloro che si fanno emblema di riconoscenza, soffermandoci per una preghiera, per un istante di commosso silenzio, o passandovi accanto senza enfasi, ma volgendo lo sguardo alla Storia di cui quelle lapidi restano interpreti e custodi. 
Nomi di padri e figli, come i comandanti partigiani Cesare e Francesco Baio, uccisi da un bombardamento aereo in Germania, dove erano prigionieri. Nomi di fratelli, come i patrioti Carlo e Gino Squarza, 19 e 24 anni, caduti ai Guselli nel dicembre del 1944, in un’imboscata nazifascista. Nomi di chi veniva da lontano, come il partigiano Antonino Di Giovanni, siciliano, Medaglia d’argento per l’eroica azione che lo vide protagonista a Prato Barbieri, quando nel gennaio del 1945 permise a molti dei propri compagni di mettersi in salvo mentre veniva brutalmente colpito dalle raffiche nemiche. 
E’ anche per loro, che ci stringiamo oggi in un abbraccio ideale, cercando nell’impronta del loro cammino un punto di riferimento, un insegnamento di coraggio civile e di coerenza, un esempio di dignità mai piegata, mai compromessa, mai soggiogata. E’ per tutti coloro che, come ha affermato Romain Rolland, sensibile e illuminato narratore che tante pagine ha dedicato alla figura umana in una prospettiva di universale fraternità, sono stati eroi “per aver fatto quello che potevano”. Per non aver chinato il capo a un regime di cui non potevano condividere i princìpi, per non aver scelto la via più facile disertando la chiamata alle armi, per non aver esitato nel porre il bene altrui prima del proprio. 
Ecco, credo allora di poter cogliere i sentimenti di molti nel dire che oggi siamo qui nel nome di chi è caduto perché inseguiva una speranza, di chi ha vissuto gli stenti e l’orrore del campo di battaglia, ma anche di chi in questo nostro tempo, a noi più vicino o in angoli lontani del mondo, vede calpestati e annichiliti i propri diritti. Penso alle vittime civili dei conflitti passati e presenti, ai popoli cui portano il loro aiuto in terre straniere – spesso, come è accaduto in questi anni, a rischio della propria incolumità – i nostri militari impegnati nelle missioni internazionali, ai quali va in questa giornata di dolente partecipazione il nostro affetto e la nostra stima. 
Ma il mio pensiero va anche ai migranti che abbiamo pianto al largo di Lampedusa perché ambivano a un domani migliore, lontano dalla dittatura, dalla miseria, dall’orrore delle bombe e delle rappresaglie, per sé e per i propri figli. E a quei 50 bambini che il loro domani lo hanno perso per sempre, insieme agli adulti che li accompagnavano, nel deserto che dal Niger conduce all’Algeria. Perché la guerra non sempre ha il fragore di una deflagrazione, ma la devastazione può essere altrettanto forte nonostante l’incedere strisciante. Quel che resta, quel che è comune e ricorre nei decenni, è che è pagare sia quasi sempre “la povera gente” di cui scriveva Mario Rigoni Stern. Ed è proprio questo, invece, che i Caduti cui dedichiamo la nostra commemorazione sincera ci hanno mostrato: che la strada da seguire è quella dell’incontro, della condivisione, del dialogo. Così si costruisce la pace, così si onora la loro Memoria, così si dà senso compiuto alla Patria come fulcro della nostra coscienza civile e democratica.