Si è svolta questa mattina, nel 70° anniveresario, la commemorazione dei caduti nell'eccidio di Barriera Genova. Era il 9 settembre 1943 nel piazzale, quando i militari in servizio nella nostra città e i civili piacentini si opposero con le armi ai soldati tedeschi. Alla cerimonia erano presenti tutte le più alte cariche istituzionali e militari, nonché una rappresentanza dell'Anpi con il vicepresidente Stefano Pronti.
Qui di seguito il discorso del sindaco Paolo Dosi.
Sono trascorsi 70 anni, da quel tragico 9 settembre del 1943 che si imprime, nella nostra storia, con traccia indelebile e profonda, segnando la prima, dolorosa e importante pagina della Resistenza piacentina. In questo piazzale che ancora oggi rappresenta, per noi, un varco di accesso al cuore della città, 34 soldati italiani caddero nel nome della libertà e dell’ideale di una patria libera e indipendente, opponendosi strenuamente all’incedere delle truppe tedesche.
All’indomani della firma dell’armistizio, annunciato con tono greve e solenne alla radio dal Ministro Badoglio, il 4° Reggimento Artiglieria di Piacenza aveva schierato i suoi uomini già alle prime luci dell’alba, collocando due bocche di fuoco qui a Barriera Genova e, nei pressi del vecchio campo sportivo, un terzo avamposto. Militari e civili – tra loro, tanti dei 49 feriti in quella drammatica battaglia – gli uni accanto agli altri imbracciarono le armi per difendere il territorio, le proprie radici e quel ritrovato senso di appartenenza alla comunità su cui si sarebbe fondata, di lì a poco, la nuova speranza del Paese: la nascita di una democrazia resa possibile dallo spirito di sacrificio, dalla lotta coraggiosa e tenace, dall’impegno senza remore delle donne e degli uomini che aderirono alla causa partigiana e la sospinsero, la difesero, la portarono avanti, pagando il prezzo più alto, sino alla Liberazione.
Chi visse quegli anni si spezzò in due. Da una parte, tra le macerie, cercò i resti della propria giovinezza, perché pareva impossibile che dentro tutto quel buio non ci fosse un barlume in cui riconoscersi. Dall’altra, guardando al futuro, cercava i motivi per amare, per ritrovare verità perdute. Ma quella parola, Resistenza, seppe mantenere intatto il suo significato più autentico, restituendo a un’Italia ferita e annichilita dal conflitto un’irrequietezza a lungo desiderata, la necessità di sentirsi vivi dentro.
Nel tempo, questa nostra democrazia ha subito agguati pesanti a colpi di terrorismo, di violenza, di bombe e di stragi senza volto, di piccole e grandi meschinità quotidiane, di parole infide e cariche di veleno. Ma quell’anelito di consapevolezza, quella capacità di coltivare un sogno per le generazioni future, ha sempre prevalso sulle trame, sulle logge, sul desiderio di offuscare le idee di libertà e pluralismo. Oggi – sedimentato l’odio, superate le divisioni, radicato il fondamento della nostra Costituzione – possiamo comprendere appieno il valore imprescindibile della Resistenza, come esperienza umana e politica, in un’Italia che deve trovare la forza e la determinazione per superare la crisi economica e sociale in cui si trova.
Come avvenne tra il 1943 e il 1945, quando nonostante le difficoltà e la durezza delle condizioni in cui versava il Paese si posero le basi per lasciarsi definitivamente alle spalle la tragedia di una fratricida guerra civile e, gradualmente, ritrovare la propria identità di popolo. Oggi dovremmo guardare un po’ più spesso a quel passato, che ci appartiene e che tanto ha da insegnarci, perché rischiamo di perdere coscienza di cosa sia una democrazia pienamente rispettata, protetta da ogni tentativo di svilimento.
E da quel 9 settembre di settant’anni fa, i piacentini di ogni età e di ogni ceto hanno compreso che era finita un'epoca e che, grazie al cammino verso la Liberazione, si sarebbero aperti orizzonti nuovi, diversi. Certo, oggi siamo qui a evocare un tragico episodio, perché immutato è il cordoglio per le vite che quel giorno eroicamente si sono spezzate, ma siamo qui anche per dire che quei morti, quei caduti, hanno reso possibile una fase della vita civile italiana molto importante per gli anni a venire del nostro Paese.
Nei centri minori, nell’Italia delle cento città, la Resistenza trovò la propria dimensione, facendo proseliti e coinvolgendo tutti coloro che capirono di dover fare fronte comune alle imposizioni che venivano dall’invasione tedesca e dalla repubblica di Salò. Chi credeva nel futuro e in un domani migliore non aveva scelta. L'unica strada percorribile era quella che portò alla formazione del Comitato di Liberazione nazionale, che vide tanti giovani combattere per ideali che avevano un nome e un cognome: libertà e democrazia.
Non possiamo, nel ripercorrere quegli anni, tralasciare ciò che eravamo allora: un Paese devastato, che usciva da una profonda crisi e da una guerra infame. Ebbene, 70 anni dopo, quei valori, quei simboli, quei miti che hanno portato il nostro Paese a essere una realtà compiutamente democratica, non devono essere dimenticati, né schiacciati dall’omologazione, dall’appiattimento di valori che sono stati e restano fondamentali per tutti noi. Ricorrenze e cerimonie come quella odierna hanno lo scopo di rinverdire la nostra memoria, di preservarci da un pensiero debole retaggio di una nuova barbarie culturale, che indiscriminatamente rimescola le carte e le idee, riscrivendo e reinventando la storia.
Innanzitutto in onore di chi ha dato la vita per la libertà, la democrazia e la pace, siamo chiamati oggi a non confondere le categorie della politica, a ribadire con chiarezza che chi scelse la repubblica di Salò aveva torto, mentre la ragione sta con chi guardava all’Europa unita, a un mondo aperto, alla Liberazione dal nazifascismo. Non possiamo e non dobbiamo mai scordarlo, anche per le vittime cui oggi rendiamo il nostro commosso e partecipe tributo.