Il ricordo della strage della Pertite, Dosi: “Non chiamamole morti bianche”

Si è celebrata questa mattina la cerimonia di commemorazione della tragedia della Pertite, il terribile incidente che 73 anni fa provocò la morte di 47 persone e il ferimento di altre 500. Nel cortile interno di Palazzo Gotico, alla presenza delle autorità civili e militari cittadine si è tenuto il sentito discorso ufficiale del sindaco Paolo Dosi. Subito dopo, di fronte alla lapide che ricorda le vittime del drammatico evento è stata deposta una corona d’alloro con la benedizione del cappellano militare dell’Aeronautica don Luigi Marchesi. Nell’occasione anche l’Anmil, rappresentata dal presidente provinciale Bruno Galvani, ha voluto lasciare fiori per sottolineare il significato della ricorrenza come momento di riflessione sulla questione fondamentale della sicurezza sul lavoro.

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IL DISCORSO DEL SINDACO PAOLO DOSI

Impiegava mille lavoratori, la fabbrica di caricamento proiettili della Pertite, quando in un pomeriggio d’estate due scoppi di portata devastante sventrarono lo stabilimento di via Emilia Pavese. Erano le 14.42 dell’8 agosto 1940: una data che da allora, per tutti i piacentini, ha assunto un significato autentico di condivisione e memoria, nel nome delle 47 persone che persero la vita e delle 500 che rimasero ferite.

Ancora oggi non possiamo affermare con certezza se le cause della tragedia furono accidentali, legate alla pericolosità dei materiali che costituivano il fulcro della catena produttiva, o se fu una mano ignota, in un’Italia da pochi mesi sul fronte della seconda guerra mondiale, a compiere una strage che segnò profondamente la nostra comunità. A squarciare il silenzio greve della censura fascista, che non permise mai di chiarire quanto accadde in realtà, sono state in questi anni le parole dei testimoni, di tutti coloro che quella sera attesero invano di riabbracciare i propri cari e che ci hanno raccontato, sulle pagine della stampa locale, la paura e lo sgomento di quei terribili istanti.

Nel ricordo della pioggia di sabbia, detriti e polvere che si abbatté copiosa sulle case, mentre il fragore dei boati risuonava ben oltre i quartieri dell’Infrangibile e di Sant’Antonio, è racchiusa la violenza di un evento che all’improvviso pose la città di fronte alla durezza ineluttabile del conflitto armato, di cui le vittime della Pertite furono forse i primi caduti civili. Nella descrizione della folla che si assembrò numerosa, di fronte ai cancelli del grande edificio colpito e ripiegato su se stesso, abbiamo potuto leggere la stessa angoscia, lo stesso dolore che ogni giorno, in questo nostro Paese fondato sul lavoro, attanaglia centinaia di famiglie e compila statistiche tristemente note. Sono 500 mila – di cui 790 mortali – gli infortuni rilevati nel 2012 dall’Inail, nel cuore delle aziende, dei cantieri, tra i ponteggi che brulicano di attività.

Come non pensare, davanti a questi numeri, alla denuncia forte e indignata di monsignor Ersilio Tonini, la cui omelia per i funerali dei 13 operai della Mecnavi di Ravenna, uccisi senza scampo nel marzo del 1987 dalle esalazioni velenose sul fondo di un’imbarcazione, è stata ricordata da tanti anche per la sua attualità? “All’origine della tragedia sta la degradazione della coscienza. Quei nostri figlioli – ammoniva l’allora vescovo Tonini, che dall’altare urlò tutta l’umiliazione delle condizioni disumane in cui erano costretti a svolgere il loro mestiere – ci dicono che il valore intorno al quale ci si deve commisurare è l’amore: nulla potrà essere lecito che sminuisca il valore della vita”.

Quelle riflessioni furono scagliate come pietre, contro una società che non ha saputo proteggere il cammino del progresso da un arrivismo privo di scrupoli, la dignità della fatica dalle speculazioni, gli ideali di giustizia ed equità dal tentativo di monetizzare ciò che non dovrebbe mai avere prezzo: i diritti inalienabili della persona. Io credo ci parlino anche delle mani preziose e veloci delle madri e mogli travolte dalle macerie di uno scantinato a Barletta, dove cucivano maglioni a 3 euro e 90 centesimi l’ora. O degli operai che oggi annoveriamo tra le vittime del terremoto perché, nei giorni successivi al sisma emiliano-romagnolo, erano rientrati al lavoro in capannoni nuovi o di recente costruzione, evidentemente non conformi agli standard di sicurezza, nel cuore pulsante della civile economia della nostra stessa regione.  Non c’è bisogno, davvero, di volgere lo sguardo lontano, sino agli oltre 1400 morti – molti di loro operai tessili, pagati con meno di 30 euro al mese per 12 ore a ritmo serrato – nel crollo del palazzo Rana-Plaza in Bangladesh, dove trovavano spazio anche abusivamente impianti produttivi di ogni genere.

Ovunque scegliamo di aprire gli occhi, anche vicino a noi, non possiamo più accettare che il lavoro sia strumento di ricatto, né che l’impegno e la dedizione di una donna, di un uomo, siano voci indistinte tra le altre nel bilancio economico. Perché ogni forma di risparmio sul rispetto delle normative, ogni scelta non compiuta, ogni mancato adeguamento alle regole che garantiscono l’incolumità delle persone non si può definire una lacuna, ma una grave e consapevole corresponsabilità. “Chiamatele pure morti bianche – recita una poesia di Carlo Soricelli, direttore dell’Osservatorio indipendente di Bologna sulle morti sul lavoro –  ma non è il bianco dell’innocenza, non è il bianco della purezza, non è il bianco candido di una nevicata in montagna. E’ il bianco di un lenzuolo, di mille lenzuoli…”.

A ribadirlo è anche la storia dei 13 operai che, tra le mura della stessa Pertite, persero la vita il 27 settembre del 1928 – con il ferimento grave di altre tre persone – in seguito all’esplosione di una delle sei caldaie in cui si fondeva l’acido pirico. La maggior parte delle vittime era piacentina, due persone provenivano da Calendasco, tre da San Rocco al Porto la cui Amministrazione, oggi, è qui accanto a noi nel ricordo di chi, da quella fabbrica, non tornò a casa.

Questa cerimonia – nel giorno in cui tra l’altro ricorre il 57° anniversario della tragedia di Marcinelle, e si celebra il sacrificio del lavoro italiano nel mondo – è anche per loro e per i loro familiari, il cui dramma è stato rievocato alcuni anni fa, proprio di fronte a questa lapide, da alcuni esponenti dell’allora Casa delle Libertà, e più di recente ricostruito in una preziosa ricerca di Gian Paolo Bulla, direttore dell’Archivio di Stato. Con commozione sincera, mi fa piacere anticipare che il Comune di Piacenza renderà loro il doveroso omaggio a breve, con una stele che ne riporti i nomi accanto a quelli dei colleghi che, 12 anni più tardi, ne avrebbero seguito la triste sorte.

A tutte le vittime della Pertite; a coloro che credono, come ha scritto Gibran, che “chi vive della propria fatica ama in verità la vita”; a chi rivendica, tutela e difende il lavoro come altissima espressione della persona umana tributiamo insieme il nostro raccoglimento. Grazie.