Alcuni di noi hanno fede, altri no. Alcuni credono al destino, altri che le cose avvengano per puro caso. E di sicuro nessuno è in possesso della verità, nessuno può svelare come stiano davvero le cose. Però ci sono storie che ti costringono a riflettere, che ti obbligano a fare i conti con le tue convinzioni, che, volenti o nolenti, ti spingono ad interrogarti. La storia di Paolo Merli è una di queste. Merli, oggi 56 anni, piacentino, gestiva un negozio di telefonia. Una notte del 4 agosto 2010 stava percorrendo in sella al suo scooter la via Emilia Parmense nei pressi di San Rocco al Porto. Ad un certo punto, da una via traversa, sbucò un’auto che invece di dare la precedenza proseguì. L’impatto fu terribile, lo scooter andò a sbattere contro la ruota posteriore della vettura, Merli fu sbalzato sull’asfalto, una ventina di metri più in là.
“Ricordo tutto di quel momento – spiega – mi trovavo a terra, immobile. Ad un certo punto vidi il conducente dell’auto scendere dalla macchina con un foglio in mano. Senza dirmi nulla, senza badare che al fatto che ero riverso a terra, si mise a scrivere su quel foglio, appoggiato al cofano: stava compilando la constatazione amichevole… In quel momento cercai di alzarmi da terra ma fui fermato da un giovane che mi spiegò di essere un volontario del 118 e mi disse di starmene sdraiato finché non fossero arrivati i soccorsi. Dopodiché urlò al conducente che mi aveva investito di smettere di scrivere e di andare a prendermi dell’acqua: avevo infatti la bocca piena di terra, ingoiata nella caduta”.
Sul posto arrivò l’ambulanza che portò Merli al pronto soccorso di Codogno. Da quel momento la sua vita era destinata a cambiare per sempre.
Le condizioni di Merli erano molto gravi tanto da convincere i medici a trasportarlo al San Raffaele di Milano: “Una mattina aprii gli occhi e un infermiere mi chiese se sapessi dove fossi. Io gli risposi che ero ricoverato all’ospedale di Codogno…ero stato in coma per sette giorni e l’ultimo ricordo che avevo era proprio dell’ospedale lodigiano. Al San Raffaele mi elencarono tutte le lesioni che avevo riportato nell’incidente: una serie infinita di fratture su tutto il corpo e un’emorragia interna che i medici avevano faticato parecchio a fermare. Mi davano per spacciato, non erano per nulla sicuri di potermi salvare. E invece ero lì, dolorante ma c’ero. Unico aspetto ancora molto critico riguardava la mia gamba: distrutta nell’impatto era stata aggredita da una violenta infezione. Alcuni medici sostenevano di potermela salvare, altri che il rischio fosse troppo elevato e che andasse subito tolta. Uno specialista di cui mi fidavo e alcuni amici mi convinsero a optare per l’amputazione e così avvenne. Dopo cinque interventi e con una gamba amputata, il 23 dicembre 2011, un anno e mezzo dopo l’incidente, tornai a casa. Mio padre, per precauzione, aveva già avviato le pratiche per la pensione di invalidità. Io però ero senza una gamba, non senza la voglia di vivere”.
“Durante il lunghissimo periodo in ospedale conobbi tutti i tipi di reazione alla sofferenza: c’erano quelli che reagivano con violenza, aggredendo le persone intorno a loro, picchiando i medici persino. Altri li vidi spegnersi poco a poco, continuando a ripetersi che la loro vita era finita. Altri ancora li vidi tirare fuori tutta l’energia che avevano in corpo e la voglia di ricominciare. Io fui sempre tra questi. Mai un sentimento negativo, mi arrabbiai solo quando i medici cercarono di convincermi a non tagliare la gamba: io quell’amputazione invece la volevo, mi avevano convinto che era meglio così”.
Merli aveva sempre avuto la passione per la cucina: “Dissi a me stesso che era ora di ricominciare a fare qualcosa e così, mentre ero in ospedale, mi feci portare un pc e creai un sito web chiamato Sapori e Saperi, un portale in cui proponevo ricette accompagnandole alla loro storia e a quella del luogo da cui provenivano. Un giorno, con mia grande sorpresa, mi contattò il famoso critico enogastronomico Paolo Massobrio riempiendomi di complimenti e spiegandomi di apprezzare moltissimo il mio lavoro. Cominciò un’amicizia virtuale, fatta di scambi di mail, finché un giorno non capitò qualcosa che ha dell’incredibile. Mi trovavo ancora ricoverato, questa volta all’ospedale Don Gnocchi per la terapia di recupero, quando mi telefonò un amico proponendomi di andare insieme a lui al Meeting di Rimini. Io però declinai, spiegandogli la mia situazione. Pochi minuti dopo, pensate un po’, mi fece la stessa proposta lo stesso Massobrio. A quel punto chiesi ed ottenni dai medici il permesso di recarmi a Rimini, richiamai il mio amico e mi precipitai in Romagna. Conobbi Massobrio e tra noi ci fu subito intesa, tanto che mi propose di aprire una sezione del suo club Papillon per Piacenza e Parma”.
Non aveva ancora fatto in tempo a finire la convalescenza che Merli era già “socio” del più importante critico culinario d’Italia…pensate cosa poteva combinare nella tranquillità di casa sua….
E infatti, già stanco di starsene con le mani in mano iniziò a collaborare con un amico che gestiva una copisteria in viale Dante: insieme trasformarono quell’attività in una cooperativa chiamata “Il Cardo” con la quale offrire possibilità di inserimento lavorativo a persone in difficoltà. Una cooperativa che oggi conta 11 soci e che lavora in due direzioni: “Produciamo copie di opere d’arte piacentine con cui decoriamo locali, ristoranti, ambienti privati. Per noi è un modo creativo di esportare l’arte e le bellezze piacentine, abbiamo persino decorato un locale in Svizzera! Dall’altra porto avanti la mia passione, la cucina: abbiamo un negozio a Fiorenzuola, chiamato “Cardo Arkafood” dove oltre ai prodotti tipici della nostra provincia vendiamo anche libri grazie ai quali è possibile approfondire la conoscenza delle nostre eccellenze. Un principio portato avanti anche nel locale dove ci troviamo in questo momento, il Cardo Gobbo. (Il luogo dove abbiamo incontrato Paolo Merli per l’intervista ndr). L’idea piacque così tanto a Paolo Massobrio che decise di collaborare con me per un altro progetto: insieme abbiamo dato vita al Golosario, l’applicazione per Iphone, presto anche per Android, grazie alla quale è possibile conoscere nel dettaglio tutti i ristoranti e i locali di Piacenza”.
Questa è la storia di Paolo Merli. Aveva perso tutto, rischiava di perdere anche la vita. In barba a tutto è riuscito a rimettersi in piedi, avviando progetti importanti, con persone importanti, progetti che crescono e progrediscono ogni giorno di più. “Prima che al San Raffaele mi amputassero una gamba il cappellano dell’ospedale mi disse che l’enorme sofferenza che stavo provando significava che Dio aveva in programma per me un disegno. ‘Non so quale – mi disse – ma ti ha tenuto in vita e questo vuol dire che il Signore ha bisogno di te per compiere un progetto’. Oggi credo di aver capito. Per me è incredibile vedere come ogni frammento di questo puzzle vada al giusto posto senza che io faccia nulla: ho un’idea, la metto in pratica, poi sono le persone a venire da me. Ora so che ogni cosa che mi è capitata aveva davvero un senso. Mio figlio studia da missionario a Kiev, i parenti di mia moglie sono missionari in Australia: quando stavo male mi venivano dedicate preghiere da tutto il mondo. Io sono credente, sono uno scout, e questo significa tanto per me. C’erano amici che non vedevo da anni e che mi hanno chiamato non appena hanno saputo ciò che mi era accaduto. Insomma, ho vissuto un’esperienza tragica, ma mi ha cambiato la vita, ho colto occasioni e vissuto avventure che non avrei mai conosciuto. Per questo, ogni anno, il 4 agosto festeggio il mio compleanno, un compleanno simbolico, perché è il giorno in cui stavo per perdere la vita e invece sono rinato”.
Oggi Merli è un uomo felice, ma c’è ancora un desiderio non esaudito: “La notte dell’incidente, una volta sbalzato dallo scooter e caduto sull’asfalto, cercai di rialzarmi. Il giovane volontario del 118 mi fermò. Ricoverato in ospedale i medici scoprirono che avevo due vertebre rotte e un’emorragia interna: se mi fossi alzato dall’asfalto sarei morto. Quel giovane, impedendomi di muovermi, mi salvò la vita. Non ho mai saputo come si chiamasse, non l’ho più rivisto: oggi vorrei incontrarlo, solo per dirgli ‘Grazie’…”.