Dal Burundi, dove vive ogni giorno insieme a centinaia di ragazzi africani presso il Centre Jeunes Kamenge della capitale Bujumbura, invia una nuova testimonianza del proprio viaggio con il progetto Kamlalaf la piacentina Sara Manstretta.
LA LETTERA
In questi giorni mi capita spesso di pensare “Chi l’avrebbe mai detto che mi sarebbe capitato di vivere un’esperienza simile nella mia vita?”. È una sensazione straordinaria, tocca ogni fibra del corpo come una scarica elettrica: ti sveglia e ti obbliga a catturare ogni istante, ogni particolare di quel momento, che ti è stato donato in virtù di non so quale grazia, e che non tornerà mai più. Ma è proprio questa la cosa meravigliosa: quella scarica elettrica si trasformerà nella persona che diventerai, ti donerà nuovi occhi e nuovi modi di vedere tutto il resto.
Ieri la scarica è stata davvero forte. Domenica mattina in un centro giovanile fondato da Saveriani significa messa. Ma siamo nel cuore dell’Africa, e il centro giovanile accoglie tutti senza distinzione di etnia, sesso, religione, orientamento politico, insegna la convivenza, insegna l’apertura, insegna l’uguaglianza: la messa si trasforma in un arcobaleno di colori (nel vero senso della parola: la sala della messa ospita sulla parete una gigantesca bandiera arcobaleno) in cui le preghiere sono prese dalla tradizione cristiana come da quella ebraica e musulmana. Prima di entrare viene consegnato a tutti il foglio con le letture e le preghiere, il libro delle canzoni e un fazzoletto colorato. La funzione di quest’ultimo è risultata chiara solo al momento del primo canto (il primo di una lunga serie), quando la gente attorno a me ha cominciato a sventolarlo in aria. Una sala di fazzoletti colorati agitati da braccia nere (molte) e bianche (poche), al ritmo di decine di canti in lingue sempre differenti, ritmati da chitarre, basso, tastiera e batteria. Sì, batteria a messa. La celebrazione era speciale: in ricordo delle centinaia di giovani iscritti al centro che, nei suoi vent’anni di esistenza, hanno perso la vita, per guerra, incidenti o malattia. I loro visi ci osservavano dalle pareti della sala, ricoperte da foto di giovani e meno giovani, uomini e donne.
La messa comincia con le parole di Claudio (mai chiamarlo padre): il Burundi è un Paese senza storia. Essendo una successione di stragi e guerre, nessuno si vuole prendere la responsabilità di dargliela, una storia, gli hutu danno ogni responsabilità ai tutsi e i tutsi agli hutu, e il risultato è che nessuno ha fatto niente. Sono quei ragazzi a fare la storia, a fare il Burundi. “La storia siamo noi”, come canta De Gregori. La storia sono loro.
La prima preghiera è una preghiera musulmana. “Presso di te il pellegrino trova riparo, tu ti volti verso coloro che ti cercano”: parole estremamente familiari, da anni le sento tutte le domeniche… Claudio dice che in paradiso non esistono settori per le religioni, ma lo dice anche il mio compagno di campo di lavoro: “Il padre, sai chi è il padre? È quello che sta nei cieli, ha tanti nomi, lo chiamano Dio, Jahweh, Allah, Giove (si, anche Giove, mi dice il mio campeur) ma è sempre lui.”
Le letture sono spiegate, contestualizzate, analizzate, scopro cose che nemmeno sapevo, nonostante i miei 18 anni di messe. Il messaggio di ogni lettura è un messaggio di speranza, Dio è vicino ai miseri, ai poveri, a tutti coloro che la società esclude ma che continuano imperterriti sulla loro strada di pace e non violenza, amore e pazienza. Le sento da sempre queste parole, ma ieri hanno ritrovato il senso che in tutti questi anni avevano ormai perso. Questi ragazzi trovano nella fede quel motivo per scegliere una legge di vita opposta a quella che vige fuori dal centro: dentro pace, fuori guerra. Dentro apertura, fuori chiusura. Dentro ordine, fuori caos. Il fedele non è il singolo, il fedele è la comunità. Il fedele è il Centre Jeunes Kamenge, che a testa alta affronta i nemici che lo insultano e lo deridono, e ritrova in Dio il rifugio e la sicurezza. Il tutto sventolando fazzoletti colorati in aria, cantando canzoni al ritmo della batteria, pregando il Dio di un’altra religione.
E poi, la lettura dei nomi di tutti i ragazzi, così lunga. Ma d’altra parte per fare vent’anni di storia la collaborazione deve essere tanta, da parte di tanti.