Dimenticare il figlio in auto, l’esperto: “Un blocco neuronale, niente accuse”

Com’è possibile dimenticare il proprio figlio sul sedile posteriore dell’auto? Com’è possibile che in otto lunghe ore non venga in mente, nemmeno per un secondo, di aver lasciato il proprio bimbo in macchina? Una tragedia apparentemente inspiegabile, un dramma che si penserebbe impossibile, quello che ha visto ieri la morte atroce di Luca Albanese, bimbo di 2 anni, lasciato dal padre in auto sul seggiolone, sotto il sole. Eppure non è la prima volta che accade, un caso che ha dei tristi precedenti. Nel maggio del 2011 la stessa sorte toccò a Jacopo, un bambino di 11 mesi morto a Passignano sul Trasimeno, in provincia di Perugia, dopo essere stato dimenticato in auto dal padre. Una settimana prima, con modalità simili, morì Elena, lasciata chiusa diverse ore in auto a Teramo sotto il sole. Trasportata in eliambulanza all'ospedale materno-infantile 'Salesi' di Ancona, la bimba, arrivata già in coma nel reparto rianimazione, morì alcuni giorni dopo in seguito a un drammatico peggioramento.

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Cosa succede nella testa di un genitore, che meccanismo scatta? Lo abbiamo chiesto a un esperto di relazioni genitoriali, un luminare che da anni approfondisce la tematica del rapporto genitore-figlio, il dott. Daniele Novara, del Centro Psicopedagogico per la Pace e la Gestione dei Conflitti.

“Innanzitutto anch’io per primo sono rimasto profondamente colpito da questa tragedia. Tutti noi viviamo con il timore che qualsiasi cosa ci possa accadere coinvolga anche i nostri figli, faccio un esempio: quando viaggiamo in auto con il nostro bimbo cresce la paura di essere coinvolti in un incidente stradale, è un pensiero che tutti i genitori conoscono. In questo caso il dramma assume dei connotati ancora più tragici per le modalità in cui è avvenuto, un dramma che impressiona la mente di tutta la collettività e io sono sicuro che questa mattina moltissimi piacentini si siano svegliati con questo dramma nella testa”.

 

Ma quali possono essere le cause?

“In casi come questo anche la psicopedagogia può dare ben poche spiegazioni. Tendenzialmente si può immaginare una sorta di ischemia temporanea, un momento in cui le finestre della mente si chiudono, un blocco proprio neuronale che spegne tutto e che di fatto impedisce di comprendere ciò che sta succedendo. In questi casi l’unica possibilità, l’unica speranza è che ci sia un impulso esterno, una domanda sul figlio fatta da un collega, qualcosa che richiami l’attenzione, perché in quel momento la persona che ha compiuto il gesto è mentalmente disattivata. Nel 99% dei casi questo succede, almeno una telefonata, un accenno o un imput arrivano nell’arco di 8 ore. In questo caso si può dire che proprio tutto è andato storto”.

 

C’è poi un’altra questione delicatissima, la situazione piscologica del padre.

“Tutto il sistema familiare deve essere aiutato, sia la madre che il padre non possono certo pensare di farcela da soli: è un senso di colpa insopportabile, per questo è necessario un sostegno psicologico immediato, un intervento rapido. Una cosa è certa, non è il momento delle accuse: sia da un punto di vista professionale che umano non mi sento di parlare di colpe”.