Marco Bellocchio chiude il Festival di teatro antivo di Veleia

Marco Bellocchio chiude il Festival di teatro antico di Veleia quest’anno incentrato sulle stelle (del cielo e del cinema). Dopo Margherita Hack, Donatella Finocchiaro, Valerio Massimo Manfredi e Nicola Piovani, domenica 15 luglio tocca a Marco Bellocchio chiudere la fortunata edizione 2012 del Festival di Teatro Antico di Veleia, nato proprio sotto il segno delle stelle, quelle del cielo e quelle del cinema.

Radio Sound

Dagli astri, divisi in costellazioni con nomi mitici, di cui ha svelato i segreti Margherita Hack nella serata speciale d’apertura della kermesse, agli astri del firmamento cinematografico: tutti gli artisti ospiti del festival di quest’anno provengono infatti dal grande schermo (Marco Bellocchio, il Maestro del cinema italiano, Leone d’oro alla carriera alla Mostra del Cinema di Venezia 2011; Nicola Piovani, compositore di musica per film -premio Oscar per La vita è bella -oltre ai David di Donatello, ai César, ai Nastri d’argento collezionati- ha lavorato con Fellini, Bellocchio, Monicelli, i Taviani, Moretti, Tornatore, Benigni-; Donatella Finocchiaro musa di Bellocchio ne Il regista di matrimoni, diretta anche da Tornatore, Verdone, Crialese…; Giulio Scarpati l’indimenticabile protagonista di film intensi come Il giudice ragazzino…; Valerio Massimo Manfredi, autore di fortunati soggetti e sceneggiature per il cinema -come la trilogia Alexandros, acquistata dalla Universal Pictures e L’Ultima legione, da cui De Laurentis  ha tratto un film con Ben Kingsley e Colin Firth-).

Tra cinema e teatro

 Per l’edizione 2012, il maestro Marco Bellocchio, Leone d’oro alla carriera all’ultimo Festival di Venezia, ha accettato di firmare un progetto artistico apposta per il festival di Veleia.

L’interesse per il teatro classico del resto è stata una costante di grandi registi italiani come Pasolini che traduce per Gassmann l’Oresteide di Eschilo (oltre naturalmente a dedicare due film ad altrettante tragedie greche – Medea ed Edipo Re -) e Visconti che firma la regia di Medea di Euripide, ma anche di Antigone ed Euridice di Anhouil, nonché di Oreste di Alfieri (con Ruggero Ruggeri, Paola Borboni, Rina Morelli, Vittorio Gassman, Marcello Mastroianni)…

Per il Festival di Veleia si tratta di un’occasione prestigiosa e imperdibile. Un regalo che il corteggiatissimo regista fa al festival, chiudendo il suo cartellone con una prima assoluta.

Marco Bellocchio omaggia infatti il Festival di Teatro Antico di Veleia  di un progetto artistico pensato appositamente per il foro veleiate.

Il festival firma così la produzione di un progetto esclusivo e mette in scena in prima nazionale un Oreste in cui si (con)fondono il Mito antico della tragedia euripidea e quello moderno del film capolavoro del regista piacentino, I pugni in tasca. Protagonista nel doppio e difficilissimo ruolo di Oreste/Ale, il virtuoso figlio d’arte Pier Giorgio Bellocchio che ha più volte dato prova di indiscusso talento.

 

La drammaturgia: tra Oreste di Euripide e I pugni in tasca di Bellocchio

Marco Bellocchio sovrappone e contrappone in un interessantissimo progetto drammaturgico l’Oreste di Euripide e I pugni in tasca. Vicini sono del resto personaggi di Oreste ed Ale, entrambi accomunati dal matricidio e dalla follia.

 

L’Oreste di Euripide

 

L’Oreste, rappresentato nel 408 a.C. in un’Atene logorata dalla guerra e ormai vicina alla sconfitta definitiva, è la libera e corrosiva rilettura di uno dei miti più rappresentati nel teatro tragico. Oreste, braccato dalle Erinni e preda dei rimorsi per il matricidio commesso, viene condannato a morte dall’assemblea degli Argivi. Abbandonato al suo destino dal pavido zio Menelao e da Apollo, il dio che l’aveva spinto al delitto, Oreste medita una sanguinaria vendetta che non porterà a termine solo per l’estremo intervento di Apollo. Vicenda cupa e angosciosa dal finale solo apparentemente lieto, questa tragedia è una delle più riuscite prove drammaturgiche di Euripide in cui si trovano una delle più interessanti rielaborazioni drammaturgiche del personaggio tragico di Oreste e una delle più inquietanti rappresentazione della follia nel teatro classico.

 

I pugni in tasca

 

I pugni in tasca è uno dei capolavori del cinema italiano e il capolavoro di esordio carriera nel 1965 di un giovanissimo Marco Bellocchio.

Entrato ormai a buon diritto nel gruppo dei testi “classici”, I pugni in tasca  racconta di un’agiata casa borghese di Bobbio (PC) in cui una madre cieca vive di ricordi con quattro figli, uno dei quali, epilettico ed esaltato, la elimina e uccide anche un fratello deficiente. Colpito da una crisi mentre ascolta La Traviata di Verdi, è lasciato morire dalla sorella Giulia. Dopo Ossessione di Visconti non c’era mai stato nel cinema italiano un esordio così clamoroso e autorevole. Non c’è più stato nemmeno nei vent’anni seguenti.

 

Oreste euripideo vs Ale bellocchiano

 

Si può essere fratelli nello spazio, e questo è certo più naturale. Ma si può essere fratelli anche nel tempo. Fra discendenza e confluenza. Pugni in tasca e Oreste non sono certamente coevi: ma coeva è la splendida disgrazia che incombe l’uno sopra, l’altro, sembra, sotto. Come se un pavimento lungo 2500 anni separasse il condominio dei due. L’attacco paranoide del fratello di Elettra è puntuale come gli insulti epilettici che il fratello di Giulia subisce puntali dopo ogni assassinio. Con un letto che ricorre nell’un caso a tentare di sedare il male, nell’altro ad eternarlo. Ed è proprio lì, nel tragico di una inconciliabilità che urta i nervi dell’anima di un uomo, di una razza, di una stirpe, che risiede il paradosso di un letto verticale: che evocando la pace, secerne il senso di una onnipotente guerra di sé contro sé. Perché se è vero che nel Mito antico Pallade perdona Oreste, nel Mito tutto moderno de I pugni in tasca, il fermo immagine di quell’esito mortale e violento sembra sussurare che di Oreste ve ne sia stato uno solo, e che le Erinni possono sorvolare su un matricidio solo se vi è Apollo ad ammortizzare la punizione. Ale non può salvarsi, sembra, perché è insolubile la frizione fra due diverse, interpolate, e selvagge giustizie. Il pugno di Oreste viene sdoganato da un divino blasone: quello di Ale non può che rimanere dentro le private e sconfitte tasche di una improponibilità. Non rimane altro che, in una prospettiva ciclica del Tragico umano, fondere le due opere, punto di inizio e di fine dello stesso Mito… (Filippo Gili)

 

Marco Bellocchio

 

Marco Bellocchio è uno dei registi più anticonformisti della storia del cinema italiano. Coraggioso, puntuale, deciso, ha saputo portare avanti le sue idee laiche, difendendole con la forza espressiva dell’arte, entrando nella complessità degli argomenti, dalla politica sessantottina alle conseguenze drammatiche degli anni di piombo, dalla follia dei manicomi all’incapacità di amare delle persone comuni.                                                                      
Nato e cresciuto a Bobbio, frequenta le scuole salesiane dove dimostra già da piccolo un animo ribelle, segno distintivo che lo caratterizzerà anche in età adulta. Dopo le scuole superiori inizia gli studi universitari, interrotti poco dopo per seguire la passione del cinema; si iscrive al Centro sperimentale di cinematografia di Roma e comincia la sua ricchissima carriera da regista di cortometraggi, fiction e documentari. Attratto dalla complessità del cinema, approfondisce tutti gli aspetti dell’arte, formandosi soprattutto sugli insegnamenti del neorealismo e della tetralogia della malattia dei sentimenti di Antonioni. Unisce così la sapienza tecnica ad un raffinato gusto estetico e realizza il suo primo film, I pugni in tasca (1965), presentato alla Mostra di Venezia come produzione indipendente. Crudele, sfrontata, distruttiva, la pellicola racconta la frustrazione di un giovane oppresso dall’educazione borghese dei genitori, un avvilimento che porta alla follia di un gesto estremo: lo sterminio della famiglia. Con un esordio del genere, accolto come una folgorazione da parte della critica più agguerrita, Bellocchio si trova a far fronte ad una serie di aspettative difficili da sostenere.  Due anni dopo presenta La Cina è vicina, un intenso film di contestazione che riprende i temi del lavoro precedente ma non con lo stesso equilibrio; il risultato è un’intelligente storia di rabbiosa reazione allo squallore della corruzione nei rapporti familiari, un modo per puntare il dito alla politica trasformista retta, in questo caso, sull’ipocrisia borghese (ben rappresentata dall’amico Antonioni, da cui Bellocchio prende spunto). Dopo la partecipazione al collettivo Amore e rabbia (1969), dove mostra il dibattito studentesco sull’avvenire della scuola, dirige Sbatti il mostro in prima pagina (1972), su sceneggiatura di Goffredo Fofi, un ritratto amaro sul mondo del giornalismo. Il protagonista, interpretato da Gian Maria Volontè, è il capo redattore di un grande quotidiano nazionale che decide di sfruttare un piccolo fatto di cronaca per mistificare il coinvolgimento politico della destra nell’attentato di piazza Fontana; il film rivela, seppur con meno audacia dei primi lavori, il coraggio di scardinare le apparenze per portare alla luce il marcio nascosto dei mass media. Nello stesso anno approfondisce l’influenza negativa della pressione politica sui canali di informazione e sottolinea le contraddizioni delle istituzioni educative del mondo cattolico in Nel nome del padre (1972).
L’amicizia con Rulli e Petraglia lo induce a prendere a cuore il dramma dei malati mentali, e realizza con loro il bellissimo documentario Matti da slegare (1975), dove cerca, con grande rispettosità, di mostrare l’erroneità dei metodi educativi nei manicomi. Il suo innato anticonformismo invade anche il campo dell’addestramento militare in Marcia trionfale (1976), con Michele Placido e Miou-Miou, e quello della letteratura straniera ne Il gabbiano (1977), difficile trasposizione cinematografica del capolavoro di Anthon Checov, scritto nuovamente da Rulli e Petraglia. La fortunata collaborazione con i due sceneggiatori continua nel successivo documentario La macchina cinema (1978), a cui si aggiunge Silvano Agosti (già co-autore di Matti da slegare), un viaggio all’interno della settima arte dal punto di vista degli attori provinanti, di chi produce e di chi usa la macchina da presa. Un bel percorso che dichiara amore al cinema, mostrandone anche gli aspetti spiacevoli, il degrado e la difficoltà di superare gli insuccessi personali.
Gli anni Ottanta inaugurano un ritorno simbolico ai temi prediletti degli esordi. Prima con Salto nel vuoto (1980), poi con Gli occhi, la bocca (1982), entrambi interpretati da Michel Piccoli, il regista rappresenta diverse dinamiche sentimentali all’interno di una famiglia, rancori e umiliazioni che si intrecciano al dramma del suicidio. Nel 1981 realizza il documentario Vacanze in Val Trebbia, autobiografia del ritorno del regista e la sua famiglia a Bobbio, il paese d’origine, tra discussioni sulla vendita della vecchia casa e nuovi sguardi sull’avvenire.
Nello stesso periodo conosce lo psichiatra Massimo Fagioli, con cui inizia un florido sodalizio artistico proprio con Diavolo in corpo (1986), subito dopo la straordinaria rappresentazione di Enrico IV (1984) con Marcello Mastroianni e Claudia Cardinale, tratto da un’opera di Pirandello. Sotto l’ala protettrice dell’amico Fagioli, dà il via a numerosi progetti: La visione del Sabba (1988), sguardo laico e lucido sulla stregoneria dei tempi moderni, scritto assieme a Francesca Pirani, e soprattutto La condanna (1991), Orso d’argento a Berlino, dissacrante riflessione sul tema dello stupro che segue gli studi psico-analitici del professore. Dietro alla sperimentazione narrativa de Il sogno della farfalla (1994), scritto da Fagioli e fotografato dal greco Yorgos Arvanitis, si cela il desiderio di superare la staticità tradizionale del racconto filmico per varcare i confini e dare maggior importanza alla voce delle immagini.  Dopo aver scandagliato l’inconscio, decide di cambiare rotta, rifugiandosi nuovamente nel più realistico lavoro di documentarista. In Sogni infranti – Ragionamenti e deliri (1995) sceglie di dare spazio alle opinioni di quattro esponenti della cultura rivoluzionaria post-sessantottina (comunisti, sindacalisti e brigatisti) per raccontare lo sfascio delle illusioni di quel particolare momento sociale. Abbandona per un attimo la politica (sempre descritta, mai fatta in prima persona) per assecondare il progetto di portare al cinema la tragedia Il principe di Homburg (1997) di H. von Kleist, film diviso tra la consolante fantasia del sogno e l’attaccamento ossessivo alla materialità, un ottimo lavoro che riporta Bellocchio all’incisività di qualche anno prima. Stesso discorso vale per il successivo La balia (1999), con Valeria Bruni Tedeschi e Fabrizio Bentivoglio, ispirato a uno scritto di Pirandello, dove il tema principale, l’incapacità di amare, viene sviscerato attraverso le parole e i movimenti ‘folli’ dei personaggi, marchi autoriali del regista. Dopo lo splendido documentario Addio del passato (2000), dedicato alla figura del musicista Giuseppe Verdi, presenta al Festival di Cannes L’ora di religione – Il sorriso di mia madre (2002), vizi e virtù di un pittore (Sergio Castellitto) colpito dalla notizia che il Vaticano intende santificare sua madre, diviso tra la difesa della sua laicità e le pressioni dei familiari che vedono nell’operazione un’occasione di guadagno economico e prestigio. L’anno dopo porta in concorso a Venezia Buongiorno, notte, ambientato durante gli anni di piombo, racconto amaro e sofferto del sequestro Moro, interpretato magistralmente dall’attore teatrale Roberto Herlitzka. Ritorna a scoprire nuovi aspetti della vita a Bobbio con Sorelle (2006), che verrà sviluppato in Sorelle Mai (2011), il quale viene definito dall’autore un piccolo film di fantasia, non documentario e tanto meno documentario nostalgico. Poi riprende in mano la riflessione sul laicismo con Il regista di matrimoni dove analizza il ruolo del cineasta deluso da una serie di piccoli fallimenti, quello di un amatore che filma matrimoni, e infine quello di chi si finge morto per avere quel riconoscimento che non ha avuto in vita.  E mentre al cinema abbandona la contestazione politica, nella vita vera decide di mettersi alla prova, candidandosi alle elezioni per la Camera dei Deputati, nella lista della Rosa nel Pugno. Parallelamente a questo nuovo percorso, coinvolge Filippo Timi e Giovanna Mezzogiorno nel progetto Vincere (2009), dove racconta la drammatica esistenza di Ida Dalser, la prima moglie di Benito Mussolini, amata, rifiutata e tenuta nascosta fino alla morte in manicomio.

 

 

Pier Giorgio Bellocchio

 

Qualcuno lo ricorda mentre appariva, coi capelli lunghi e due baffetti alla Errol Flynn, nel sequel della miniserie di grande successo Elisa di Rivombrosa. Pochi sanno che oltre al volto da attore, Pier Giorgio Bellocchio, figlio del regista Marco, è anche un produttore cinematografico e televisivo che si è spinto fino ai videoclip e ai cortometraggi. Figlio del regista Marco Bellocchio e dell’attrice Gisella Burinato, respira aria di cinema fin dai suoi primi vagiti. È ancora bambino quando il padre lo fa debuttare come attore accanto a sua madre e a lui ne Vacanze in Val Trebbia (1980), cui seguirà anche Salto nel vuoto (1980). Dal 1980 al 1997, si dedicherà agli studi come un comune ragazzo adolescente, salvo tornare a recitare nel cortometraggio paterno Elena (1997) e da lì in poi in altre pellicole, sempre diretto dal padre, come: La balia (1999) con Michele Placido, Fabrizio Bentivoglio e Valeria Bruni Tedeschi, Buongiorno, notte (2003), Sorelle (2006), Vincere (2009) e Sorelle Mai (2011). Altre pellicole nelle quali ha avuto un ruolo, non necessariamente dirette da suo padre sono state Radio West (2003) e Melissa P. (2005), ma è mancata la sua partecipazione neanche a prodotti televisivi come Al di là delle frontiere (2004), miniserie diretta dal bravo Maurizio Zaccaro con Sabrina Ferilli e Johannes Brandrup e La figlia di Elisa – Ritorno a Rivombrosa (2007) di Stefano Alleva, con Paolo Seganti, Anna Safroncik, Alessandra Barzaghi e Giorgio Borghetti. Pier Giorgio Bellocchio non è solo un interprete, ma anche un produttore. In primis, si occupa dell’aspetto finanziario dei film paterni. Quindi, Il sogno della farfalla (1994) con Simona Cavallari, Roberto Herlitzka e Carla Cassola, poi Sogni infranti (1995), Il principe di Homburg (1997) e tanti altri. Poi si occupa della produzione televisiva, sostenendo fiction come Torino Boys (1997), L’appartamento (1997), L’albero dei destini sospesi (1997) e Di cielo in cielo (1997). È anche il produttore di H2Odio (2006) e Chi nasce tondo (2008) e di alcuni videoclip musicali fra cui “Non resisto” di Irene Grandi. Una sola la sua esperienza dietro la macchina da presa, in veste di regista, il primo episodio del film corale DeGenerazione (1994) e che aveva riunito Antonio Antonelli, Asia Argento, Eleonora Fiorini, Alex Infascelli, i Manetti Bros., Andrea Muala, Andrea Prandstraller, Alberto Taraglio e Alessandro Valori sotto il segno del genere horror. Il suo corto è intitolato Arrivano i nostri ed è la storia di un produttore di film horror che viene seguito e giustiziato dagli alieni. Sempre di alieni si parla nel fantascientifico 6 giorni sulla Terra (2011), di Varo Venturi, dove Pier Giorgio interpreta il Tenente Bruni.

 

 

 

Acquisto e prenotazione biglietti

Anche quest’anno il pubblico del Festival di teatro antico ha la possibilità di acquistare i biglietti in prevendita o di prenotarli telefonicamente.

Prevendita biglietti:

(a partire da martedì 19 giugno)

Presso lo sportello di Cariparma

sede di via Cavour, 30 Piacenza

da Lunedì a Venerdì, ore 8.25-13.25 e 14.45-16.00

 

Info e prenotazioni:

Associazione Cavaliere Azzurro

tel.  0523 76 92 92     cell. 331 95 59 753

dalle ore 9.00 alle ore 12.30 e dalle ore 14.30 alle 18.00

 

info@veleiateatro.com

www.veleiateatro.com

 

Costo biglietti:

 

I biglietti degli spettacoli hanno un costo simbolico: 8 € tutte le file (fatta eccezione per  i posti di prima fila centrale, € 20; seconda fila centrale, € 15)

E’ prevista una riduzione per under 18 e over 65

 

Tutti gli spettacoli si tengono nella magnifica cornice dell’Area Archeologica Nazionale di Veleia Romana.

In caso di maltempo sul sito web saranno indicati gli aggiornamenti sull’agibilità dello spettacolo

 

Chi desidera può Seguire il festival anche su Facebook (Veleia Teatro) e Twitter (Fare Cultura)

 

DOPO TEATRO ENOGASTRONOMICO

Al termine di ogni spettacolo, il salumificio La Rocca di Castell’Arquato, l’associazione viticoltori Val Chiavenna, l’azienda agricola Pier Luigi Magnelli e l’azienda vitivinicola La Tollara offriranno al pubblico e agli artisti una degustazione di vini e salumi piacentini.

Questa novità, introdotta da tre anni, ha avuto notevole successo e si inserisce nel progetto di turismo culturale sotteso al festival di teatro antico, che contempla, tra i suoi valori, anche quello dell’aggregazione.