“A Piacenza sono presenti la N’Drangheta e i Casalesi, in modo meno radicato rispetto ad altri territori ma non ne è comunque esente”. E’ l’analisi, confermata dal report presentato oggi a Bologna, del senatore Enzo Ciconte, uno dei massimi esperti in Italia delle dinamiche delle grandi associazioni mafiose.
Si intitola “Quaderni di città sicure dell’Emilia Romagna” e il volume conta circa 200 pagine, nelle quali viene analizzato il rapporto tra Emilia-Romagna e criminalità organizzata, dall’immediato dopoguerra ad oggi.
Realizzata all’interno delle attività della legge regionale sulla prevenzione all’infiltrazione mafiosa e la promozione della legalità, approvata un anno fa dalla Regione, la ricerca è stata esposta in un incontro pubblico che, tra gli altri, ha visto la partecipazione del Procuratore della Repubblica di Bologna Roberto Alfonso, della vicepresidente e assessore alle Politiche per la Sicurezza della Regione Simonetta Saliera, del vicepresidente della Provincia Maurizio Parma e di Andrea Campinoti di Avviso Pubblico e dello stesso autore.
La ricostruzione si ferma a inizio 2012 e offre un quadro aggiornato della situazione.
Così, arrivando ai giorni nostri, Ciconte si è sbilanciato nell’affermare: “Il terremoto in Emilia sarà un terreno fertile per le mafie, soprattutto se non si prenderanno provvedimenti necessari”.
Non manca la fiducia, comunque, al senatore, visto che “ci sono esperienze in passato che dimostrano come questi fenomeni debbano essere guardati prima e non dopo. Come all’Aquila, dove è stata posta una task force nazionale che ha impedito o resa difficile la tentazione di infiltrazione delle mafie”.
Purtroppo, però, l’esperto di criminalità organizzata ha assicurato come le mafie in Emilia Romagna, e in particolare nelle zone colpite dal sisma, è certo che “le mafie siano già presenti, nei centri dove è avvenuto il terremoto. Tutto sta nell’impedire che entrino nei cantieri e nei subappalti di ricostruzione”.
Si tratta comunque di un dossier anche per certi versi rassicurante per la nostra regione. Rispetto ad altre del nord, infatti, in Emilia Romagna, ha concluso Ciconte “nonostante gli assalti le mafie non sono riuscite a entrare nel campo della politica, come avvenuto in Lombardia, Piemonte e Liguria. Inoltre non hanno in nessun punto un controllo del territorio”.
E intanto domani si inaugura la sede della Dia a Bologna. Fra gli strumenti che la regione avrà a disposizione per combattere le mafie ora ci sarà dunque anche la sede della Direzione investigativa antimafia, che sarà inaugurata domani alle 10 e subito operativa. Lo annuncia il Procuratore della Repubblica Roberto Alfonso. “Fin da subito l’ufficio lavorerò con metà dell’organico in dotazione che si pensa sarà al completo entro la fine dell’anno”.
Alla presentazione del report ha partecipato l’assessore provinciale alla sicurezza Maurizio Parma, unico piacentino presente: “La presenza mafiosa nel nostro territorio è nota da tempo, abbiamo attivato un osservatorio sulle infiltrazioni mafiose in accordo con l’Emilia Romagna che entrerà in attività in queste settimane”.
L’ESTRATTO DEL DOSSIER CHE RIGUARDA LA NOSTRA PROVINCIA
Tra Bologna, Cesena, Forlì, Piacenza
Oltre a quelli appena ricordati ci sono altri territori dove c’è un’infiltrazione mafiosa con caratteristiche diverse da quelle dei comuni appena ricordati.
Partiamo dalla presenza dei Bellocco di Rosarno a Granarolo dell’Emilia. Nel giugno del 2009 la Squadra mobile di Bologna, diretta dal dirigente Fabio Bernardi, intercetta delle conversazioni che riguardano i Bellocco, nota ed importante famiglia mafiosa di
Rosarno (RC) anzi – scrivono Giovanni Musarò e Beatrice Ronchi, sostituti procuratori della Repubblica di Reggio Calabria – “senza dubbio alcuno, una delle consorterie più antiche, pericolose e potenti della ‘ndrangheta, coinvolta nei più importanti processi celebratisi negli uffici giudiziari di questo distretto negli ultimi trent’anni”. Umberto Bellocco è il capo storico. È al carcere duro, in regime di 41 bis, eppure continua a reggere le fila della ‘ndrina come mostra l’indagine della DDA di Reggio Calabria sull’Autostrada del sole, mentre suo fratello Carmelo, più volte condannato per associazione mafiosa, è il reggente, l’uomo a cui spettano le decisioni più importanti nell’impossibilità del fratello di esercitare un comando giornaliero. Carmelo non è uno qualsiasi nella gerarchia della famiglia, anzi. I poliziotti scoprono che un certo Francesco Amato sta minacciando Carmelo Bellocco al quale chiede conto d’un omicidio in danno di un suo parente avvenuto nel 1989 e che l’uomo addebita proprio ai Bellocco. La richiesta era di “un ‘risarcimento’ in termini di vite, minacciando altrimenti più pesanti ritorsioni”. Amato aveva seguito come un’ombra per più giorni Carmelo Bellocco che s’era accorto del pedinamento attribuendolo ad un possibile controllo delle forze di polizia. Ma non lo seguiva un poliziotto; lo ‘ndranghetista se ne accorse solo quando Amato lo avvicinò presso i locali della Veneta Frutta di Granarolo dell’Emilia e gli espose le sue lamentele. La società aveva uno stand nel mercato ortofrutticolo e lì, dice Giulia Gentile, “aveva sede la succursale della ‘ndrina con l’ambizione di espandersi al nord”208.
Il fatto era grave e nello stesso tempo plateale, fuori dall’ordinario. Colpì molto la fantasia di Carmelo Bellocco che da un anno era stato affidato in prova ai servizi sociali con ordinanza del Tribunale di Sorveglianza di Bologna in data 15 luglio 2008. Aveva ottenuto l’affidamento grazie all’aiuto di Rocco Gallo, padre della convivente di uno dei figli di Bellocco, “che aveva dato la disponibilità a procurargli un alloggio e ad assumerlo alle dipendenze della s.r.l. Veneta Frutta, da lui amministrata”.
Bellocco, secondo le indagini della Squadra mobile di Bologna e di quella di Reggio Calabria, aveva ripreso l’attività illecita e “aveva assunto nuovamente la direzione dell’associazione mafiosa, chiamando a raccolta a Bologna i vari affiliati”209.
Il comportamento di Amato era davvero sconcertante perché “era semplicemente inammissibile che un soggetto come Amato Francesco – che, pur ritenuto pericoloso, non apparteneva ad alcuna famiglia mafiosa – avesse osato avvicinare e addirittura minacciare un elemento di spicco di una cosca importante come quella dei Bellocco. Era assolutamente necessario, pertanto, adottare contromisure nei confronti di Amato Francesco: non solo per prevenire eventuali azioni violente degli Amato, ma anche per tutelare il prestigio del sodalizio”.
Per discutere il da farsi Carmelo Bellocco convocò una riunione dei suoi familiari a Granarolo dell’Emilia (BO). Salirono tutti e i poliziotti registrarono l’intera riunione il 21 giugno. Il problema non era semplice da dipanare; la scarsa rilevanza criminale dell’uomo che aveva minacciato il capo della ‘ndrina poneva la questione di chi ci fosse dietro di lui, di quali protezioni godesse. Insomma, era un pazzo o era stato mandato da qualcuno? Uno dei Bellocco, incredulo per quanto era avvenuto, commentò: “noi siamo cristiani, uno che si sogna di venire a parlare con noi in quel modo è un pazzo, o è pazzo o è stato pilotato”.
Carmelo Bellocco temeva ci fosse lo zampino dei Pesce, antichi alleati dei Bellocco. Ma stentava a crederlo, non riuscendo a capacitarsi delle ragioni che avrebbero potuto spingere i Pesce ad agire così. La cosa da fare era per intanto parlare con Ciccio ‘u Testuni, cioè Francesco Pesce, figlio di Antonino Pesce, capo indiscusso della ‘ndrina, all’epoca detenuto a Secondigliano e chiedergli se fosse a conoscenza dell’iniziativa dell’Amato. È ovvio che la risposta di Pesce sarebbe stata determinante ai fini delle future alleanze.
La situazione è molto grave e gravida di funeste conseguenze. Ci sono rischi concreti che possa scoppiare una guerra. La madre dei Bellocco e uno dei figli, al termine della riunione, commentano quella tragica eventualità in questi termini: “una volta che partiamo, partiamo tutti, una volta che siamo inguaiati, ci inguaiamo tutti…. dopo, o loro o noi, vediamo chi vince la guerra, dopo…pure ai minorenni”. Era necessario colpire anche le donne: “pari pari, a chi ha colpa e a chi non ha colpa, non mi interessa niente…e femmine”.
Intanto, però, c’è da mettere in sicurezza Carmelo Bellocco per proteggerlo da eventuali attacchi. A Granarolo è senza protezione ed è esposto, è un facile bersaglio che chiunque può impunemente colpire. Il modo migliore per assicurargli un minimo di sicurezza è dargli un’arma per protezione personale. Per il possesso di quell’arma l’uomo ritornerà in carcere.
Si sentono minacciati i Bellocco, non c’è dubbio. Non sanno da che parte provenga la minaccia e ciò li rende ancor più preoccupati e nervosi. Temono per il loro potere e si attrezzano per una eventualità estrema che Umberto Bellocco sintetizza così: “Rosarno è nostro e deve essere per sempre nostro…sennò non è di nessuno”.
Sono parole chiare, nette, che non hanno bisogno di alcun commento. Mostrano senza fraintendimenti la cultura mafiosa, il senso del dominio, del comando, del controllo del territorio. Sono parole estremamente significative perché in un’epoca di globalizzazione e con una ‘ndrangheta in espansione negli scacchieri economico-criminali a livello mondiale, esse esprimono le ragioni profonde di un ancestrale attaccamento al territorio, di un’identificazione delle ’ndrine con i luoghi dove sono nate e si sono sviluppate.
È a Rosarno che i Bellocco, nonostante la proiezioni in altre località italiane e straniere, continuano ad avere il loro centro di interessi economici come mostrano anche le indagini della Squadra mobile di Bologna e si preoccupano del loro futuro in modo che non tutti gli uomini della famiglia partecipino ad attività criminali. Discutendo con la moglie, Carmelo Bellocco le dice che Domenico, “Micu, deve badare all’immagine di imprenditore”.
In quest’alba del nuovo millennio le ‘ndrine hanno ancora la capacità di rigenerazione di una cultura che fa della permanenza sul territorio e del suo controllo una ragione di prestigio, di potere, di sopravvivenza, di vita.
E per queste ragioni reagiscono duramente a ogni attacco alla loro signoria territoriale. E Amato, che per di più è uno zingaro e non uno ‘ndranghetista, questo aveva fatto, non si sa bene se per conto suo o per conto d’altri.
Non sono soli i Bellocco, hanno amicizie e rapporti anche a Bologna. Carmelo Bellocco chiede alla famiglia di concentrarsi per il momento sul problema Amato e a quel punto uno dei figli dice che “parlerà con Pasquale di Spilinga (VV)” che era residente a Bologna per cercare aiuto e sostegno in caso di necessità.
Bologna è l’epicentro di una presenza mafiosa discreta e silente che ogni tanto emerge alla luce in tutta la sua importanza. In seguito alla cattura di Nicola Acri a Bologna nel novembre del 2010 è stato possibile appurare che appartenenti al suo gruppo “avevano manifestato interesse a progetti imprenditoriali da realizzare mediante l’impegno di fondi pubblici messi a disposizione dalla Regione Emilia-Romagna”210.
Non una presenza passeggera, come si può vedere; anzi!.