Un recente sondaggio della società Ferrari Nasi & Associati rivela che solo il 43 per cento degli italiani sa che cosa siano le “foibe”. Su questo dato interviene il presidente della Provincia Massimo Trespidi. Trespidi accusa un silenzio troppo lungo sull’argomento, durato decenni. Il Presidente ricorda alcuni dati, tra cui i 350mila esuli e i 30mila italiani uccisi. E’ necessario un paziente lavoro di ricostruzione della memoria, chiosa Trespidi.
LA LETTERA DI TRESPIDI
In merito al sondaggio non possiamo negare che dietro a questo dato c’è un silenzio durato decenni, né ignorare il fatto che solo 8 anni fa il parlamento italiano, con una legge ad hoc, ha istituito il “Giorno del ricordo”, che celebriamo in questo 10 febbraio, facendo appunto memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra.
Parliamo di trecentocinquantamila esuli e di trentamila infoibati italiani. Come ci racconta lo storico e giornalista Gianni Oliva, nella primavera del 1945 mentre il resto degli italiani usciva dal conflitto tra le ferite da rimarginare e l’ansia del “si ricomincia”, sul confine Nord Orientale la guerra proseguiva nella pace. A Trieste, Gorizia, nell’Istria molti italiani scomparirono portati via dalle proprie case dall’Ozna, la polizia politica dell’esercito jugoslavo del maresciallo Tito.
La furia dei titini non fece distinzioni. Nel mirino finirono «persone coinvolte con il vecchio regime fascista, antifascisti attivi nel Comitato di liberazione nazionale della Venezia Giulia, impiegati dello Stato italiano, cittadini che non appartenevano a nessuna di queste categorie ma che per una vendetta privata, un regolamento di conti, vennero coinvolti nel dramma di quei giorni. Gli arrestati “scomparirono” e di loro non si seppe più nulla: molti saranno uccisi e gettati nelle foibe, i grandi inghiottitoi naturali di cui è cosparso il suolo Carsico».
Quella che si è consumata nell’Est italiano in quegli anni ha i profili della strage etnico-politica, ha i terribili contorni di disegni politici demoniaci, che in un ‘900 di sangue si sono succeduti con devastante frequenza, nell’andamento pendolaresco dei due opposti estremismi di destra e sinistra.
Chiaro il disegno di Tito: fare del Friuli Venezia Giulia una repubblica popolare comunista annessa alla Jugoslavia. Il maresciallo macchinava di raggiungere l’Isonzo ed estendere i confini occidentali del suo Paese alle terre dell’Istria e a quelle a netta prevalenza italiana di Trieste, Gorizia e Monfalcone. Che nessuno parli di “follia collettiva” o in qualche misura di “giustificate vendette”. Nell’eliminare gli italiani dell’Istria Tito e i suoi pensarono che il terrore fosse un mezzo accettabile. Gli eccidi – ci dice il grande storico Elio Apih (uno dei maggiori esponenti della storiografia triestina del Novecento) – utilizzarono modalità e pratiche tipiche dei “rivoluzionari organizzati”. Quella che fu portata avanti fu una vera e propria “azione politica coordinata”, frutto della capacità di esperti del terrore appositamente addestrati.
Non smette di stupire e di far riflettere come questo disegno malato sia riuscito a fare proseliti, come – del resto – ogni folle proposito frutto del fanatismo ideologico. L’adesione al progetto di Tito minò a Oriente anche l’unità d’azione della Resistenza italiana. I partigiani “rossi” dell’area avallarono il progetto titino, fino a sposarne implicitamente quelle rivendicazioni territoriali fortemente contrastate, al contrario, dagli altri partigiani italiani. L’eccidio delle malghe di Porzus e i 18 partigiani della “Osoppo” uccisi rimangono una testimonianza drammatica in questo senso.
Una testimonianza che si incrocia alle tante grida di dolore che sono giunte da quella terra, oltre sei decenni fa. Come quella di Norma Cossetto, vittima nel ’43 dei titini dell’EPLJ (Esercito popolare di liberazione della Jugoslavia), torturata, seviziata e poi gettata viva nella foiba di Villa Surani. Come quella delle tre sorelle Radecchi, due delle quali gettate nelle cavità carsiche ancora vive. Come quella del brigadiere Paolo Bassani di Vicenza, scomparso a Gorizia e atteso per 12 anni dalla moglie che ogni sera accendeva una candela affinché il marito ritrovasse la via di casa. Come quella del tenente della Guardia di Finanza Pietro Stefanetto, infoibato. Tragedie nascoste di cui l’Italia postbellica non ha fatto memoria.
La voce delle vittime di questa tragedia ancora risuona nelle testimonianze dei sopravvissuti. “Di quali inesplicabili colpe ci eravamo macchiate davanti agli occhi degli uomini dal berretto con la stella rossa che ci condussero a morire?”, si chiede Myriam Andreatini Sfilli, esule da Pola, in un racconto toccante che si aggiudicò un’edizione del “Premio Norma Cossetto”. A pagare le conseguenze di un assurdo odio estremista – ci dice Myriam – furono “agricoltori vissuti sempre curvi nei campi, operai dalle mani callose, il bidello della scuola, quello che nei giorni di festa esponeva fuori dall’edificio la bandiera italiana, il messo comunale, il macellaio di un paese vicino e alcune donne, quelle donne che tenevano sempre acceso il focolare e avevano le mani impastate di pane”. L’odio, il risentimento, l’ignoranza, accecano la vista e ottundono la mente e – la storia ci insegna – si traducono drammaticamente in “ferocia perversa e collettiva”. Fu così nel caso del folle disegno hitleriano di una pura razza ariana, fu così nel caso dei massacri etnici di Tito. Ed oggi, in alcune parti del mondo, è ancora così. “Sei ancora quello della pietra e della fionda uomo del mio tempo” dice Salvatore Quasimodo. La rassegnazione a un’umanità sconfitta dal male ritengo non possa essere la ricetta. Ma allora, da dove ripartire? Innanzitutto dalla riscoperta dei fatti, da una nuova analisi della storia, da un giudizio svincolato da pregiudizi di natura politica, etnica, religiosa.
Ai fini dell’obbiettività storica, in questi anni, non ha aiutato l’atteggiamento, da parte di certa cultura “nostalgica”, di chi ha utilizzato e strumentalizzato le foibe per fini di lotta politica, connotandole come fenomeno “di parte”.
“Penso che sia arrivato il momento di raccontare i fatti, ma sento che per un giudizio così ampio non è ancora arrivato il momento giusto. Lasciamo questo alle generazioni future” scriveva Hannah Arendt. A oltre 60anni di distanza quel momento è arrivato.
E’ venuto cioè il tempo di riportare a galla oscuri capitoli della nostra storia, come quello, appunto, delle foibe. E’ venuto il tempo di liberarsi di preconcetti, risentimenti, fanatismo ideologico, per svelare i fatti. Basta “smemorati”, profeti dell’oblio, dimenticatoi creati ad hoc. Troppo spesso la storia ha apposto etichette alle sue vittime. Al contrario, proprio il rigore storico, la necessaria lucidità con cui lo studio attento e accurato dovrebbe guardare ai fatti, imporrebbe di considerare il passato così come emerge da numeri, testimonianze, senza alcuna sovrastruttura, senza giudizi che indirizzino, a posteriori, il corso di eventi già accaduti. Occorre pertanto recuperare sempre più l’autentico spirito della storia, quello, appunto, dell’Historia di Erodoto, che vuol dire “indagine”, “inchiesta”.
Non lasciamo che le cavità Carsiche, dopo aver sepolto le vite di migliaia di nostri connazionali, ora sotterrino anche il dovuto ricordo e la testimonianza storica dell’ennesima tragedia scatenata dal terribile progetto di sottoporre la libertà personale all’ideologia. Come dice, ancora, Oliva, «le memorie che vogliono rafforzare il presente e guardare al futuro non possono essere fatte di omissioni e di censure, ma devono fondarsi su consapevolezze critiche e onestà intellettuale».
Non basta una legge a costringere al ricordo (è solo un buon punto di partenza). Servono una nuova consapevolezza, una ritrovata obbiettività e un paziente lavoro di ricostruzione della memoria.
Massimo Trespidi
Presidente della Provincia di Piacenza