Ha avuto luogo oggi la cerimonia di commemorazione della tragedia della Pertite, in ricordo delle vittime dell’esplosione della fabbrica di caricamento proiettili che, nell’estate di settant’anni fa, provocò 47 morti e il ferimento di cinquecento persone. Nel cortile di Palazzo Gotico, alla presenza delle massime autorità cittadine, il sindaco Roberto Reggi ha reso omaggio ai Caduti con il discorso ufficiale, cui è seguita la deposizione di una corona d’alloro, benedetta dal cappellano militare monsignor Bruno Crotti, e di un mazzo di fiori da parte di Danilo Frati, vice presidente dell’Associazione nazionale Mutilati e Invalidi del Lavoro.
Qui di seguito il discorso di Roberto Reggi e le sue dichiarazioni.
Erano circa un migliaio, gli operai della fabbrica di caricamento proiettili della Pertite che l’8 agosto del 1940 si trovavano, intenti alle proprie mansioni, nello stabilimento di via Emilia Pavese, sventrato con brutalità improvvisa da due scoppi devastanti. Il fragore delle esplosioni, che provocarono la morte di 47 persone e il ferimento di altre cinquecento, scosse la città – e la sua coscienza – alle 14.42 di un pomeriggio che Piacenza non avrebbe più dimenticato.
Gli uni accanto agli altri, vittime innocenti e incolpevoli di un’industria bellica che fioriva nell’incedere strisciante della guerra, lavoravano ragazzi che si affacciavano all’età adulta, sposi che condividevano la vita e l’occupazione, genitori che nella fatica quotidiana riscattavano una speranza per il futuro dei loro figli.
Alla vigilia del 70° anniversario di quel tragico evento, la nostra comunità rende omaggio ai caduti e a tutti coloro che portarono, nel corpo e nell’anima, i segni della deflagrazione, la cui forza dirompente non riuscì però a squarciare il silenzio assordante del regime fascista. Mentre consegniamo alla storia gli interrogativi, mai risolti, su quanto avvenne realmente quel giorno, ci assale l’amara consapevolezza che ciò che resta, nel tempo, è l’insegnamento profondo di un passato che purtroppo reca in sé una drammatica attualità.
Penso, a questo proposito, al duro atto d’accusa diffuso pubblicamente da Marco Bazzoni, operaio metalmeccanico di Firenze, che in una litania dolente ripete “…le chiamano morti bianche, perché il candore allude all’assenza di una mano direttamente responsabile dell’accaduto. Invece la mano responsabile c’è sempre, più d’una. Le chiamano morti bianche, ma sono il risultato dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo, dove la vita non ha valore rispetto al profitto”. Le sue parole, vibranti di rabbia e di indignazione in un Paese, il nostro, che nel corso del 2009 ha registrato 790 mila infortuni sul lavoro, nei quali 1050 persone hanno perso la vita, si intrecciano in maniera vivida e intensa a quelle dei testimoni della tragedia della Pertite, che recentemente abbiamo potuto leggere sulla stampa locale.
Nell’esplosione di quell’8 agosto del 1940, destinato ad assumere i contorni di una ferita mai rimarginata, Guglielmo Spingardi perse lo zio e la zia. Entrambi lavoravano lì, e morirono insieme. “Io che abitavo in via Taverna – dice – sentii uno scoppio spaventoso, e poi per tutto il pomeriggio e fino a sera piovve sabbia”. Furono in tanti, a radunarsi fuori dai cancelli serrati dello stabilimento in attesa di sapere, di capire se i loro affetti erano stati spezzati dalla morsa di un boato che, come ha rievocato un altro concittadino all’epoca quindicenne, Carlo Campagnoli, in pochi istanti aveva lasciato dietro di sé solo “polvere, vetri e macerie”.
E’ anche per lui, che racconta di aver dovuto aspettare tre giorni, insieme al padre e ai fratelli, prima di poter riportare a casa il corpo senza vita della mamma, che oggi si tiene questa cerimonia solenne e sincera. E’ per tutti coloro che in quello stabilimento cercavano soltanto di guadagnarsi onestamente da vivere, per i loro cari e per un dolore che non si lenisce. E’ per una città, Piacenza, che piangendo le prime vittime civili di un conflitto che le avrebbe strappato centinaia di altre braccia, centinaia di altri respiri, forse percepì in quello stesso giorno la violenza e la sopraffazione della guerra.
Per ciò che è stata e che tuttora rappresenta, la tragedia della Pertite ci insegna – non mi stanco di ripeterlo, anno dopo anno – il senso autentico di valori quali il rispetto della dignità e della centralità della persona umana nel sistema politico ed economico. Ci esorta a difendere la pace come elemento fondante e irrinunciabile di una società che voglia definirsi civile e democratica, ma anche come riferimento che possa ispirare, nella quotidianità, le nostre scelte individuali.
Perché ogni volta che un’impalcatura non è dotata di protezioni, ogni volta che una trave si abbatte su un cantiere a causa di controlli che non sono stati effettuati, ogni volta che una cisterna esala fumi tossici e letali, questi stessi ideali vengono annichiliti e calpestati, violando il diritto fondamentale del singolo a trovare nel lavoro non solo un mezzo di sostentamento, ma la realizzazione di sé e delle proprie aspirazioni.
E’ così che, onorando la memoria delle operaie e gli operai dello stabilimento di via Emilia Pavese, tributiamo un omaggio doveroso e sentito a tutte le donne e a tutti gli uomini che hanno pagato e continuano a pagare il prezzo, inaccettabile, di un progresso che non ha saputo garantire né tutelare la propria spina dorsale: i lavoratori. E quella stessa reazione che ci coglie quando sentiamo parlare di “morti bianche” – “non fantasmi”, come ha scritto in una poesia bella e triste Almerina Raimondi, ma “figli, mariti, padri, fratelli…ammazzati per un pezzo di pane sudato…” – ci unisce in un abbraccio commosso alle loro famiglie.
Per i caduti e i feriti della Pertite, i cui nomi sono incisi nella storia di questa città e di questo Paese come vittime civili di guerra e vittime del lavoro, la nostra comunità si assume oggi la responsabilità di contrastare ogni forma di indifferenza di fronte alle iniquità, alle prevaricazioni, alla non osservanza di regole che possono delineare il confine tra pericolo e protezione. Tra morte e vita. Perché nessuno di noi possa più pensare: non mi riguarda.
Grazie.