E’ con la parola “Musungu” che ti senti chiamare per le strade affollate di Kampala, ed è solo attraversandole che realizzi davvero di essere arrivato in Africa. Non avevo reali aspettative all’inizio di questo viaggio, ma giunta qui mi rendo conto che è esattamente tutto come mi era capitato di immaginare.
Strade rosso mattone, costruzioni fatiscenti e la vita che si svolge tutta nelle strade. Fiumane di gente invadono le carreggiate. Alcuni ti sorridono, spesso ti fissano, altri cercano di parlarti, di darti la mano: “Hi! How are you?” dicono tutti. Si vedono uomini e donne che chiacchierano tra loro, gridano, gesticolano e ridono. E’ così che passano la giornata, in compagnia e costantemente all’aria aperta.
E’ al mercato del pesce, sulle sponde del lago Vittoria, che abbiamo trascorso il nostro primo pomeriggio. Tra le strade del villaggio, chiacchierando con i pescatori, osservando la vita economica che si svolge al di fuori delle capanne, provo una delle emozioni più intense di questi giorni: un bambino mi viene incontro, prende la mia mano, ne scruta il palmo e cerca di capire che cosa la renda così diversa dalla sua. E’ lì che realizzi come sia sufficiente quel sorriso per dare un senso al tuo viaggio.
Una delle cose che si notano, osservando i più piccoli, è la gerarchia delle età, rigorosamente rispettata: un bimbo di quattro anni ha pieni poteri su quello di due, uno di sei su quello di quattro.
Lungo la strada per Moroto, nelle interminabili ore di viaggio, ripenso alle giornate trascorse e mi viene alla mente che, atterrati a Kampala, in aeroporto si legge: “Welcome to the pearl of Africa”. Non so se si tratti davvero di una perla, ma di un Paese che riserva mille sorprese, questo sì!
Alice Bellagamba
Nel moto perpetuo tra aerei, aereoporti, pullman, stazioni, jeep e a piedi tra le vie di Kampala, quante persone incontrate, quanti “stranieri” che diventano nuovi interlocutori temporanei, che ti urlano “musungu” o con i quali semplicemente incroci il tuo sguardo. E ancora, quanti li vedi occupati nelle loro strane mansioni e pensi di capire tutto della vita che fanno ma in realtà non sai nulla: mai potresti immaginarti in che anguste abitazioni vanno a riposare poi ogni sera o che concezione hanno, completamente diversa dalla nostra, di famiglia.
Tra il suono ridondante di lemmi in inglese, in “luganda”, in “karimojon” e in “swahili” si rischia l’incomprensione: solo così ho intuito che l’universalità del sorriso, invece, mette d’accordo tutti.
Da questi numerosi e fugaci incontri, così diversi da quelli della nostra quotidianità, sorge da sé nella mente di ognuno, un piccolo fiumiciattolo asciutto: nel suo letto giacciono pensieri filantropi e vani, non l’acqua, un’acqua che però, con la sola forza del pensiero non si potrebbe procurare a tutti. Ed è così che lo stupore contemplativo e l’amore per il prossimo di molti europei di Africa Mission, Onu, Unicef e altre Ong, si tramuta subito in folgorante impegno fisico e intellettuale per creare reali pozzi in zone ancora molto aride e secche, quali il Karamoja.
Qui volontari e cooperanti decidono di passare anni a vivere con i Karimojon ma non come loro, ossia rispettando le differenze culturali. Infatti nelle abitazioni di Cooperazione e Sviluppo che ci ospitano, abbiamo tutti i confort simili a quelli di casa, ma nonostante ciò si fa strada in me una sensazione mai vissuta: mi sento straniero non solo per formalità, perché di diversa cittadinanza rispetto ai locali o perché sul mio passaporto è scritto “Repubblica Italiana”, ma mi sento un osservatore esterno della loro vita. Mi sto però impegnando per fare spazio all’altro perché si crei un orizzonte comune colmo di belle esperienze.
Ora mi consuma una sete, un desiderio, per il mio e il loro futuro, che mai si placa, guidato dalla luce della luna che qui splende come fosse il sole, e illumina di speranze ultraterrene tante pelli brune.
Giacomo Cantù
500 chilometri per un totale di undici ore di viaggio. Può sembrare assurdo ma, considerando il tragitto, poteva andare molto peggio. La strada che conduce da Kampala, la capitale, a Moroto, nel Nord, capoluogo della Karamoja, ha ben poco in comune con una statale in Italia. Juma, il nostro autista, sembra non curarsi delle condizioni avverse della carreggiata, di cui circa metà è in terra rossa, e si destreggia tra buche e smottamenti, mentre è incessante il rumore dei sassolini che urtano la carrozzeria del nostro pullmino.
200 chilometri attraverso la savana, una distesa sterminata, quest’anno un po’ più verde del solito, intervallata da alberelli isolati: questa è la Karamoja. Aguzzando la vista si possono scorgere, a volte a pochi chilometri da noi, i villaggi tipici di questa regione: piccoli agglomerati di casette cilindriche con il muro in mattoni e il tetto in paglia.
E di tanto in tanto i Karimojon (gli abitanti) si spingono sulla strada: sono giovani, spesso bambini, che pascolano greggi di capre e mucche, ma anche donne e uomini in cammino. Una cosa accomuna la maggior parte di essi: il sorriso e il cenno che ci rivolgono con la mano.
E’ difficile trovare risposta a tutti gli interrogativi che si affollano nella mente in questi istanti: cosa rivela un sorriso? Si tratta davvero di un simbolo di accoglienza, una sorta di ricerca di contatto con noi? Come considerano la nostra presenza tra di loro?
La reazione più immediata è provare a mettersi nella loro testa, cercare di immaginare i loro pensieri; ma non credo si tratti davvero dell’approccio migliore: come possiamo avere la pretesa di capire, non conoscendo nulla di loro? E’ davvero possibile superare differenze culturali apparentemente così profonde?
Finalmente, verso le 10, l’arrivo a Moroto: una vera e propria città, se confrontata con gli altri insediamenti della Karamoja. Lo staff di Cooperazione & Sviluppo, la Ong presso cui siamo ospiti, ci attende all’ingresso di quella che sarà la nostra casa per i prossimi dieci giorni.
Le aspettative sono tante, e le occasioni di conoscere questa misteriosa realtà sicuramente non mancheranno.
Daniele Castellana