Kamlalaf, nuovi racconti dal Burundi

Una giornata di lavoro insieme ai ragazzi basta per comprendere quanto possa essere arricchente questa esperienza. Alzarsi alle 6.30 per essere pronti sul campo da tennis del Centro alle 7, trovare tutti i membri del tuo gruppo che uno ad uno ti stringono la mano in segno di saluto con il sorriso che li contraddistingue, mangiare con loro un tozzo di pane e bere del the burundese bollente…tutto questo è di per sè unico, ancora prima di cominciare. E poi sentire tutti cantare la canzone del mattino, mentre un ragazzo (diverso ogni mattina) eleva al cielo la bandiera della pace che fa da padrona al centro della piazza, ti fa capire quanto sia importante questo momento per i ragazzi, ma anche per te che hai la fortuna di viverlo.
Io mi sforzo di capire, ascoltare e rispondere a tutte le loro curiosità e mi sento bene, rido, scherzo con loro, ma quando è il momento tutti insieme si lavora. Fare i mattoni è faticoso ma il tempo passa in fretta grazie alla loro compagnia.
Già dopo una mattina di lavoro ho legato con tutti, ragazzi e ragazze del gruppo, e una volta arrivata l’ora, si torna al centro per una doccia rigenerante. Il pranzo è una festa. Riso, fagioli e carote è il menù ricorrente, servito in grossi piatti metallici. I ragazzi portano dell’avocado e lo mischiano al cibo, dopodichè uniamo tanti piatti in uno solo cosi’ da mangiare ancora più uniti. Parliamo, ridiamo ed in questi momenti mi viene da pensare alla sorprendente positività di questi ragazzi che nella loro condizione riescono lo stesso a sorridere sempre, a guardare il lato positivo della vita. Hakuna matata, mi dice un ragazzo…senza pensieri.
Michel

Radio Sound

Prima di partire ero spaventata, perchè credevo che sarebbe stato molto faticoso e forse poco divertente. Certo, il lavoro é duro e non é sempre facile inserirsi nei gruppi di lavoro con ragazzi che hanno fatto una vita molto diversa da quella che io conosco…
Molte volte mi é capitato di sentirmi fuori luogo, di non sapere che cosa dire a dei ragazzi che sono nati e cresciuti nella violenza, ma ci sono anche dei momenti in cui ti senti parte della loro realtà. Per esempio, oggi hanno voluto che partecipassi con loro a una scenetta di teatro e ne sono stata molto felice.
Già qualcuno prima di me ha detto che questo centro, per capirlo, lo devi vivere e io sono completamente d’accordo.
Fare questa esperienza è un’occasione speciale: ti dà l’opportunità di guardarti dentro, di capire che c’è altro al di fuori del mondo che conosciamo, di vivere atmosfere che in occidente sono dimenticate. E poi ci si diverte molto, soprattutto al pomeriggio quando si parte insieme ai ragazzi di qui alla volta delle loro case.
Maria Augusta

Una settimana di lavoro è passata. Ci sentiamo tutti parte di un’unica squadra: scherziamo, ridiamo, fatichiamo insieme. C’è chi porta gli attrezzi (un barile, 4 vanghe, 4 zappe, un piccone, secchi e taniche), chi va a prendere l’acqua, chi conversa amichevolmente in kirundi, swaili, francese, inglese.Tutto questo contornato dalla miriade di bambini che ti assale con il coro: “muzungo bonbon?”, ossia “uomo bianco hai una caramella?”. Sì, se devo scegliere la cosa che più mi ha colpito della mia esperienza, fin qui, è la quantità di bimbi che pur vivendo in condizioni miserevoli ti accoglie sempre con volti sorridenti, forse incoscienti del mondo problematico che li circonda.
A mezzogiorno per tutti, ancora insieme, rientro al centro con doccia e pranzo in comune composto da riso e fagioli a volte arricchiti da avocado, banane, cipolle. Al pomeriggio per i ragazzi dei quartieri formazione riguardante temi generali quali la lotta alla AIDS, la democrazia, l’inquinamento, la famiglia. Un’altra settimana insieme ci attende, curiosi di vedere cosa l’Africa ci puo’ ancora riservare…
Matteo

Dopo quattro giorni di campo di lavoro sono due le cose che mi hanno fatta sentire piuttosto soddisfatta: per prima cosa i ragazzi del mio gruppo si stanno abituando a chiamarmi per nome; è una piccola cosa, ma significa che per loro incomincio ad essere GIULIA e non più una qualsiasi MUZUNGU (che nella loro lingua vuol dire ‘uomo bianco’).
Seconda cosa, sto imparando ad essere un po’ più abile manualmente: quella dei mattoni è un’arte e non è così scontato saper maneggiare il fango nel modo giusto.
Intanto assaporo la normalità di camminare su strade polverose, di incontrare ogni istante tantissime persone e di salutarle tutte, qualunque sia il grado di confidenza raggiunto.
E’ normale essere sempre circondata da bambini e non far più caso a come sono vestita, perchè intorno a me spesso vedo meno di quello che io considererei l’essenziale.
E sono felice.
Giulia