Sono tornato dal viaggio, la stanchezza e la frenesia dell’ultimo giorno non mi hanno permesso di scrivere da Betlemme il resoconto dell’ultimo giorno: lo faccio ora fra le mura della mia casa.E’ strano come qualcosa di così familiare come le stanze di una casa possano dare serenità mentre a migliaia di chilometri un altro muro rappresenta l’infrangersi di un sogno, e toglie la sicurezza di una vita vissuta in libertà.Ho compiuto il viaggio di ritorno con Ilo Steffenoni, uno studente di un liceo di Verona che ho incontrato sull’aereo d’andata col quale ho condiviso tutti i giorni le impressioni di questo viaggio. Abbiamo stretto un patto, mettendo a disposizione l’uno dell’altro quello che avremmo visto. Vedendo posti, situazioni, persone diverse ci saremmo arricchiti a vicenda. Giovedì scorso, insieme ad altre 25 persone ha ottenuto, in extremis, il visto per entrare a Gaza e questo è quello che Ilo mi ha scritto. "Quasi due ore di checkpoint per entrare a Gaza. Sono partito con un po’ di timore, ma soprattutto con una grande voglia di vedere con i miei occhi cosa vuol dire vivere là, perché fino ad oggi avevo sentito solo dei racconti.E’ stata una esperienza forte. Tutto quello che ho visto è difficile da digerire, perché là è il "nulla". Solo macerie. Macerie e rassegnazione, e chi non è rassegnato è carico di rabbia. Ho visto una distruzione che è totale e ho visto le fondamenta di un palazzo che prima di essere fatto esplodere era stato riempito di 40 civili palestinesi. Ho visto cosa significa la guerra. Quello che ho visto mi ha cambiato. Sento il bisogno di tornarci, perché è una regione in cui nel buio più totale ogni tanto spunta uno spiraglio di luce. Una luce forte, che potrà espandersi in futuro ma bisogna aiutarla. Non posso dimenticare tre ragazzi della mia età con cui ho parlato nel luogo che una volta era un quartiere, e che adesso è una distesa di macerie. Due sono rassegnati, ma uno no. Le sue parole sono cariche di rabbia e dolore, e finchè mi racconta di come la sua casa sia stata distrutta da un missile, io mi rendo conto di una cosa: che se io fossi stato un israeliano mi avrebbe ucciso. Lui è nato nella guerra, è cresciuto nella guerra, comprende solo la guerra e morirà nella guerra. Perché chi nasce a Gaza non ci potrà mai uscire, morirà a Gaza. Perché si trova in una prigione a cielo aperto. Si trova in prigione nella sua terra".Ho riportato per intero il suo resoconto, non ho tolto una virgola. Io non sono stato a Gaza, ma leggendo il suo racconto l’unica cosa che mi trasmette è angoscia e dolore. Nomina la speranza ma in modo impersonale, non riporta segni tangibili di essa in quello che ha visto, sembra che lo dica quasi per tranquillizzarsi. E’ strano che un ragazzo non veda e non riporti almeno un po’ di vita e speranza. Di questa non c’è il minimo segno. Mi domando come sia possibile che il nostro mondo di uomini non possa trovare una soluzione per dare a tutti i ragazzi una minima speranza. L’impegno che noi dobbiamo metterci è grande, nessuno escluso, soprattutto noi che abitiamo dall’altra parte del muro.Anche qui a Piacenza è possibile adoperarsi per trovare una via di mediazione e risoluzione di questa che sembra essere la madre di tutte le guerre. Una guerra che da 50 anni continua il suo corso e del quale non si vede la fine.Ma oltre ai popoli di Palestina e Israele forse lo dobbiamo a noi stessi e ai ragazzi che abbiamo vicino a noi: troppo spesso dimostriamo di saper alzare muri attorno a noi, che non lasciano passare le persone che ci vivono accanto, e che, con fatica, a volte mai, riusciamo ad abbattere.Il comitato degli Enti locali per la pace, di cui Piacenza fa parte, si troverà a breve per discutere un’azioni congiunta per fare pressione affinchè una soluzione sia individuata e portata avanti con determinazione con la speranza di essere ascoltati. Per dare speranza.